Quale funzione ha il sonno per il nostro cervello? Alcuni esperti ritengono che sia una funzione ristorativa, per riparare i danni da usura nel macchinario cellulare. Un’altra scuola di pensiero ritiene invece che sia fondamentale il processo di consolidamento della memoria e di altri processi cognitivi.
Ora sembra essere sorta una terza ipotesi: il sonno serve a far diminuire d’intensità le sinapsi, le connessioni tra i neuroni, controbilanciando così l’aumento d’intensità che si verifica durante il giorno.
Quando il cervello è in stato di veglia, infatti, ciascuna sinapsi è ripetutamente attivata, e quindi aumenta d’intensità, un processo ritenuto importante per l’apprendimento e la memoria.
Secondo l’ipotesi dell’omeostasi sinaptica, tuttavia, a un certo punto deve intervenire qualche meccanismo che bilanci questa crescita, per evitare la saturazione delle sinapsi e l’annullamento della segnalazione neurale e delle memorie.
L’idea è che i neuroni vadano incontro a una riduzione di scala: in sostanza, tutte le sinapsi di una rete neurale diminuiscono d’intensità della stessa percentuale, lasciando inalterata l’intensità relativa, e permettendo così la continuazione dell’apprendimento e della formazione di nuovi ricordi. E il sonno è probabilmente il momento migliore per questo processo di rinormalizzazione, perché quando siamo addormentati poniamo molta meno attenzione al mondo esterno e siamo liberi dal “qui e ora”.
Quando le sinapsi aumentano d’intensità, diventano anche più grandi, e per converso, si contraggono quando s’indeboliscono. Per questo motivo, Chiara Cirelli e Giulio Tononi del Wisconsin Center for Sleep and Consciousness, autori del primo studio, hanno pensato di determinare se la dimensioni delle sinapsi cambiassero tra sonno e veglia. Hanno quindi analizzato le immagini ad altissima risoluzione di corteccia cerebrale di diversi topi, ottenute con una tecnica di microscopia elettronica tridimensionale, misurando le dimensioni di ben 6.920 sinapsi.
Hanno poi verificato, per ciascuna sinapsi, a quale topo apparteneva e per quanto tempo aveva dormito l’animale nelle 6-8 ore precedenti alla registrazione dell’immagine. Hanno infine scoperto che poche ore di sonno hanno portato in media a una diminuzione delle dimensioni delle sinapsi, in entrambe le aree della corteccia cerebrale studiate e in misura proporzionale alle dimensioni delle sinapsi.
Il ridimensionamento si è verificato nell’80 per cento delle sinapsi ma ha risparmiato quelle più grandi, a cui sono associate le tracce di memoria più stabili.
Da notare che gran parte delle sinapsi nella corteccia subisce un grande cambiamento nelle dimensioni con sole poche ore di veglia e di sonno. Estrapolando dai topi agli esseri umani, i nostri risultati implicano che ogni notte migliaia di miliardi di sinapsi nella nostra corteccia si assottigliano di circa il 20 per cento.
Nel secondo studio, Graham Diering e colleghi della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltomore, nel Maryland, hanno esaminato le proteine che costituiscono i recettori posti sui neuroni postsinaptici nel cervello di topi, in particolare in due aree cerebrali fondamentali per apprendimento e memoria: l’ippocampo e la corteccia. L’analisi ha dimostrato che nei roditori si verifica una diminuzione del 20 per cento nei livelli di proteine recettoriali, indicativo di una diminuzione d’intensità delle sinapsi.
Per verificare quali molecole fossero responsabili del fenomeno dell’omeostasi, gli autori hanno studiato in particolare Homer1a, una proteina nota per il suo ruolo nella regolazione del ciclo sonno-veglia. Dall’analisi è risultato che nelle sinapsi dei topi addormentati i livelli di questa proteina era superiori del 250 per cento di quelli dei topi svegli. La connessione tra Homer1a e omeostasi è presto spiegata da un test su topi ingegnerizzanti in modo da non esprimere la proteina: la diminuzione delle proteine recettoriali associate al sonno non si manifestava più.
03 febbraio 2017; Chiara Cirelli e Giulio Tononi del Wisconsin Center for Sleep and Consciousness; Graham Diering e colleghi della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltomore, Maryland.